In questa casa che mi è estranea, ascolto note di un’antica melodia.
Le onde s’infrangono sugli scogli, la bianca schiuma pennella le porose rocce e disegna lingue soffici che si accarezzano. Il mare assomiglia ad una grande creatura squamosa. Il suo respiro irregolare si sintonizza col mio, acuto e affannoso. Il fisico sta cercando di non precipitare in un’apnea d’aria. Un angolo della mia mente è cosciente che la richiesta esigente d’aria pura è solamente una falsa necessità: il corpo è sfasato e in iperventilazione. Proprio per questo il fiato si blocca nei polmoni, dentro al petto, tra le costole… e spinge per uscire dalle resistenti ossa e oltrepassare le barriere che lo intrappolano. Mi hanno insegnato a non assecondare questo affanno. Mi hanno insegnato a far scorrere l’aria giù, giù, fino al diaframma, ad agevolare la sua espansione. A posare una mano, ora gelida e sudata, sul ventre ed assaporare il non più consueto atto di respirare. Su e giù. Dentro e fuori. Ancora e ancora. Finchè la tempesta decide di passare, lasciandosi infine un corpo esausto, una mente svuotata. Mi hanno insegnato ad ascoltare il battito del mio cuore, accelerare, decelerare. Battere furiosamente contro un petto che diventa ben poca, ben piccola, ben stretta casa per un organo che pompa ininterrottamente fino alla fine dei nostri respiri. Il sangue circola furiosamente nelle vene, raggiunge le periferie, corre una maratona per tornare su, al cervello. Se calmo il respiro, il cuore si tranquillizza. Lo so. Lo so. Vorrei gridare! Ma sono rinchiusa in questo stato di agitazione, che mi sembra perenne, come le nevi e i ghiacciai, lassù sul tetto del mondo, a un passo dal cielo. E il tremito delle mani non cessa. Le parole sono svanite, scomparse, evaporate, come l’acqua che bolle troppo a lungo. La condensa si è depositata sulla mia anima, ferita ancora una volta, strappata, lacerata. Se quella goccia di sudore completasse la sua scia sulla mia schiena, ora forse mi siederei più serena. Ma no, la testa è pesante e ciondola da un lato all’altro attaccata da quel collo nudo e pallido come le gote, non più rosee. Occhi velati, lacrime che prepotenti spintonano per scorrere su questo viso senza sorriso. È una cavalcata al galoppo verso una meta sconosciuta nel profondo della mia essenza. Mi hanno insegnato a mantenere il contatto con la terra, qualsiasi terra sia. Erba, sale, sabbia, piastrelle, cemento… Mi hanno insegnato ad appoggiare la pianta dei piedi perfettamente aderente al suolo e ad abbandonarmici sopra. Permettere alla terra di sorreggere il mio peso, caldo, senza più energie. Ho imparato a tenere gli occhi aperti sul mondo. Per non perdere i sensi, per non essere inghiottita dal vortice nero e scuro che mi chiama e mi strattona verso il baratro. Occhi profondi. Occhi azzurri eppure grigi. Dolci emozioni macchiate di viola. Una scintilla che s’incendia e piano piano si tramuta in brace.
In questa casa che mi è estranea, ascolto note di un’antica melodia.
Ilaria Severino